Le fondazioni bancarie: il furto pubblico del no profit privato

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Le fondazioni bancarie nascono per sottrarre le banche al controllo dello Stato. All’inizio degli anni Novanta, quando l’Italia dovette affronta re l’apertura dei propri mercati ai partner europei, più della metà degli enti creditizi italiani era di diritto pubblico. La necessità di adeguare il sistema bancario alla cosiddetta ‘unità economica europea’ spinse l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, a separare la funzione di diritto pubblico dalla funzione imprenditoriale: la legge delega Amato-Carli n. 218/1990 dispose che gli enti bancari diventassero società per azioni sotto il controllo delle fondazioni, le quali successivamente avrebbero dovuto collocare le proprie azioni sul mercato.
Le fondazioni bancarie costituivano una sorta di holding pubblica che, pur gestendo il pacchetto di controllo della banca partecipata, non poteva esercitare attività bancaria: i dividendi percepiti venivano intesi come reddito strumentale a un’attività istituzionale (indicata nello statuto), che doveva perseguire “fini di interesse pubblico e di utilità sociale”.

Un compromesso tipicamente all’italiana per cedere formalmente il controllo operativo senza in sostanza cedere alcunché, simile a quello escogitato per risolvere il conflitto di interessi berlusconiano: il legislatore sosteneva che, se chi è proprietario di un’azienda si disinteressa della sua gestione, limitandosi a percepirne gli utili, il rischio di sue interferenze indebite nell’amministrazione risulta annullato. Va sottolineato che questa ambiguità di fondo nella definizione dei nuovi soggetti era probabilmente necessaria per far digerire ai politici quello che doveva sembrare un eccesso di emancipazione dei banchieri italiani: le banche facevano un primo passo verso un sistema di mercato autentico, come volevano sia la Comunità europea che Bankitalia, e nello stesso tempo il Palazzo poteva consolarsi nella consapevolezza che si cambiava tutto per non cambiare nulla, secondo il celebre adagio. Questo conflitto irrisolto fra i desiderata delle banche e quelli della politica era evidentemente destinato a far sentire la sua influenza nelle riforme successive, ed è testimoniato dai numerosi ricorsi alla Corte Costituzionale sollevati dalle fondazioni nel tentativo di escludere il più possibile l’influenza della politica dalla loro attività.

Il ruolo delle fondazioni secondo la Consulta

La Corte Costituzionale si è pronunciata con le sentenze 300 e 301 del 29 settembre 2003, con le quali ha fatto chiarezza sul ruolo e sull’identità delle fondazioni di origine bancaria, che sono state definitivamente consacrate come “persone giuridiche private dotate di piena autonomia statutaria e gestionale” e collocate a pieno titolo “tra i soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali”. In sintesi, la Corte Costituzionale ha affermato che l’evoluzione legislativa intervenuta dal 1990 ha spezzato quel “vincolo genetico e funzionale”, “vincolo che in origine legava l’ente pubblico conferente e la società bancaria”, e ha trasformato la natura giuridica del primo in quella di persona giuridica privata senza fine di lucro, “della cui natura il controllo della società bancaria, o anche solo la partecipazione al suo capitale, non è più elemento caratterizzante”; ha sancito definitivamente la natura privata delle fondazioni di origine bancaria, ribadendo che sono collocate nell’ordinamento civile e che, quindi, la competenza legislativa sulle stesse compete allo Stato; ha dichiarato incostituzionale la prevalenza negli organi di indirizzo delle fondazioni dei rappresentanti di regioni, province, comuni, città metropolitane; ha stabilito al contrario che la prevalenza deve essere assegnata a una qualificata rappresentanza di enti, pubblici e privati, espressivi della realtà locale; ha valutato incostituzionale l’utilizzo di atti amministrativi da parte dell’Autorità di vigilanza (ad interim il ministero del Tesoro e delle Finanze, in attesa della creazione di un nuovo soggetto), che comprimano indebitamente l’autonomia delle fondazioni, cioè gli atti di indirizzo di carattere generale o i regolamenti intesi a modificare l’elenco dei settori di utilità sociale; ha definito il concetto di controllo congiunto da parte di più fondazioni presenti contemporaneamente nell’azionariato di una banca, evidenziando che esso sussiste solo se fra di esse c’è un patto di sindacato accertabile; e ha ridimensionato gli spazi delle incompatibilità delle cariche per i membri degli organi delle fondazioni, stabilendo che vale solo per la presenza in società che siano in rapporto di partecipazione o di controllo con la banca conferitaria.

I pronunciamenti della Corte Costituzionale, intesi a configurare in maniera risolutiva l’identità delle fondazioni di origine bancaria appartenenti ai “soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali”, privati e autonomi, sono stati ripresi dal regolamento attuativo (d.m. 18 maggio 2004, n. 150) della legge Tremonti, concludendo così il lungo periodo di incertezza che ha condizionato l’operatività delle fondazioni.
Parrebbe proprio che le esigenze del sistema bancario italiano (il mercato), abbiano alla fine prevalso sulle ingerenze della classe politica. “In salvo il bottino delle fondazioni”, titola il 30 settembre 2003 La Repubblica, riferendosi ai 36 miliardi di euro sottratti al controllo del ministro del Tesoro di turno. Del resto gli autori dell’impianto legislativo principale sulle fondazioni sono stati tutti alti esponenti di Bankitalia (Carli e Ciampi ne sono stati governatori e Dini direttore), e il tentativo di Tremonti di ricondurre i nuovi soggetti a più morbide posizioni nei confronti del controllo politico è naufragato sugli scogli della Consulta. Ma se quella del 2003 fosse stata solo una piccola vittoria all’interno di una guerra i cui esiti erano tutt’altro che scontati?

Conclusioni

Investire i lauti profitti delle banche in opere a sostegno della società civile può sembrare a prima vista un progetto meritorio in cui le fondazioni assumono un ruolo di Robin Hood moderno.
Ma, tolto il velo dell’apparenza, la situazione si rivela di un’ambiguità spaventosa. Per quanto riguarda la Cdp, al di là del giudizio (positivo o negativo) che si possa avere circa l’intervento dello Stato nell’economia, lasciare decidere la strategia industriale di un Paese a una società privata, libera di perseguire i propri interessi di profitto, qualunque essi siano, nei settori che appaiono più interessanti, e senza vincoli di alcun tipo, è tutt’altro che rassicurante. Per chi vuole l’intervento della mano pubblica, perché le priorità non vengono concertate nelle sedi deputate (il Parlamento) e i mezzi per perseguirle escono dal controllo dello Stato; per i fautori del laissez faire, perché la Cassa viene utilizzata dalla politica per bypassare dettati comunitari e dinamiche di mercato, nazionalizzando in sostanza – come ha sottolineato qualcuno – quel che si era detto di voler privatizzare. Per quanto riguarda invece il ruolo delle fondazioni voluto dagli enti locali, cioè quello di super investitori in infrastrutture, la questione è doppiamente grave: in primo luogo perché storna una gran parte delle risorse da settori – come la cultura, la scuola, le politiche sociali – in cui si sente davvero bisogno di finanziamenti alternativi a quelli dello Stato (benché il conflitto fra responsabilità pubblica e privata rimanga irrisolto, trasferendosi a livello locale). In secondo luogo perché l’obbligo per le fondazioni di investire il 90% dei proventi nella regione di appartenenza privilegia il nord rispetto al sud del Paese (l’interesse della Lega non è casuale), contribuendo a enfatizzare una differenza di disponibilità che ha ormai ampiamente superato il livello di guardia.

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